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Licenziamento nullo se comminato prima della fine del periodo di malattia o infortunio

 

 

II licenziamento intimato prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dal c.c.n.l è nullo in quanto in violazione dell'art. 2110 c.c.Li

Il tema del licenziamento per malattia conseguente al superamento del periodo di comporto è da sempre al centro delle attenzioni della Cassazione.

Con la recentissima sentenza a Sezioni unite (SS. UU. 12.568 del 22 maggio 2018) la Suprema Corte nella sua massima espressione ha finalmente risolto i dubbi inerenti al periodo di comporto, esprimendosi a favore della nullità del licenziamento laddove il medesimo sia stato intimato al lavoratore in costanza di fruizione del periodo di malattia.

Nello specifico il lavoratore interessato da questa sentenza della Suprema Corte, dopo aver impugnato giudizialmente il licenziamento si era sentito rispondere in appello che l'intimato licenziamento fosse perfettamente valido, pur dovendo spiegare i propri effetti solo a far corso dalla data in cui avrebbe terminato di fruire della malattia.

Non dello stesso avviso è stata invece la Corte di Cassazione, cui la questione è stata rimessa in composizione a Sezioni Unite per dirimere e dissipare tutti i dubbi che la Giurisprudenza di merito aveva finora esternato nell'affrontare case similari e affini.

Esistevano infatti due indirizzi Giurisprudenziali non coerenti, rilevati dalla Sezione Lavoro della Cassazione con ordinanza n. 24766/2017:

il primo affermava la mera inefficacia del licenziamento irrogato nel periodo di malattia, efficacia che veniva semplicemente posticipata alla cessazione dello stato patologico;

Il secondo che affermava invece la nullità del licenziamento irrogato prima che venisse definitivamente consumato l'intero  periodo di comporto.

La Corte, a Sezioni Unite, ha pertanto stabilito che la sentenza della Corte d'Appello fosse da censurare nella parte in cui violava il dettato dell'art. 2110 c.c. .

Infatti, la Corte di Cassazione sottolinea che solo il superamento del periodo di comporto, avrebbe reso legittimo il licenziamento comminato dal datore.

Nel caso di specie, il licenziamento era stato comminato al lavoratore da parte del datore in un momento antecedente alla totale e definitiva consumazione del periodo di comporto.

Sostiene la Corte che secondo l'ormai consolidato orientamento della stessa (cfr. Cass. 24525/14, n. 12031/99, n. 9869/91), ai sensi dell'art. 2110 c.c. il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di licenziamento, cioè a dire : una situazione di per sé idonea a consentirlo, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all'art. 2119 c.c. e degli articoli 1 e 3, Legge 604 del 1966.

D'altronde - prosegue la Corte - "il mero potrarsi di assenze  oltre un determinato limite stabilito dalla contrattazione collettiva o in difetto dagli usi o secondo equità di per sé non costituisce inadempimento alcuno, trattandosi di assenza pur sempre giustificate."

Soggiunge inoltre la Corte: "nè per dare luogo a licenziamento si richiede un'accertata incompatibilità fra tali prolungate assenze e l'assetto organizzativo o tecnico produttivo dell'impresa, ben potendosi intimare il licenziamento per superamento del periodo di comporto pur ove, in concreto, il rientro del lavoratore possa avvenire senza ripercussioni negative sugli equilibri aziendali. In altre parole, dall'articolo 2110 c.c., si rinviene un'astratta predeterminazione legislativo-contrattuale del punto di equilibrio fra l'interesse del lavoratore a disporre di un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito della malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all'organizzazione aziendale."

La Corte infine soggiunge che " ammettere come valido sebbene momentaneamente efficace, il licenziamento intimato ancor prima che le assenze del lavoratore abbiano esaurito il periodo massimo di comporto significherebbe consentire un licenziamento che, all'atto della sua intimazione, è ancora sprovvisto di giusta causa o giustificato motivo e non è sussumibile in altra autonoma fattispecie legittimante."

Si tratterebbe dunque di un licenziamento acausale (proprio tale termine usa la Suprema Corte), disposto al di fuori delle ipotesi residue previste dall'Ordinamento (che si ricordano essere: lavoratori in prova, dipendenti domestici, dirigenti, lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia).

Si deve pertanto concludere che altrimenti si riuscirebbe così ad aggirare l'interpretazione dell'art. 2110 c.c. comma 2 volutamente ignorandone la ratio che è proprio quella di garantire al lavoratore un ragionevole arco temporale di assenza per malattia o infortunio, senza per ciò solo perdere l'occupazione.

Lo Studio Legale De Paola Longhitano di Torino è esperto nella materia giuslavoristica e nel Diritto del Lavoro.

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